Published On: 21 Novembre 20241264 words6.3 min read

(Adnkronos) –
L’Italia è diciottesima in Europa per spesa in ricerca e sviluppo, con l’1,33% in rapporto al Pil (l’obiettivo nell’Ue è il 3%) ma, anche con poche risorse a disposizione, il valore della produzione scientifica del nostro Paese è ai vertici a livello internazionale. L’Italia, infatti, è responsabile del 31% dei 2.169 studi autorizzati in Europa nel 2022 e continua a rappresentare un attore protagonista nella ricerca clinica del Continente. Resta, però, il nodo cruciale dei ritardi nell’accesso alle nuove terapie. Oggi, tra l’autorizzazione a livello europeo e la rimborsabilità a livello nazionale, trascorre ancora troppo tempo. Servono infatti circa 14 mesi (424 giorni), un valore in linea con quello medio europeo (432 giorni per Ue-13+Inghilterra) e migliore rispetto a Francia (527) e Spagna (661), ma nettamente peggiore della Germania (126), che è la più rapida nel rendere disponibili le nuove terapie. Servono, da un lato, più risorse da destinare alla ricerca scientifica, dall’altro nuovi modelli per velocizzare l’accesso all’innovazione. Sono le richieste di Foce (Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi) nel convegno nazionale “Il valore dell’innovazione e della ricerca clinica” oggi a Roma. 

“In Italia, nel 2022, sono stati 663 gli studi clinici autorizzati – spiega Francesco Cognetti, presidente Foce -. La maggior parte delle sperimentazioni sono in fase III (41%), va però evidenziato l’incremento del 14,5% degli studi di fase I rispetto al 2021, a indicare una crescente propensione all’innovazione con maggiori sforzi nello sviluppo di nuove molecole. Ogni anno, in Italia, sono circa 40mila i cittadini coinvolti nelle sperimentazioni. Due terzi dei trial interessano le neoplasie, le malattie ematologiche e cardiovascolari, che tra l’altro producono i due terzi della mortalità annuale. La ricerca clinica è un motore di sviluppo economico e sociale, che può offrire un contributo importante al recupero dell’attuale crisi del sistema. È infatti dimostrato che un euro investito in uno studio clinico ne genera quasi 3 (2,95) in termini di benefici per il Ssn, grazie ad esempio ai costi evitati per l’erogazione a titolo gratuito di terapie sperimentali e prestazioni diagnostiche alle persone arruolate nei trial. Ma l’Italia investe ancora troppo poche risorse in quest’area”.  

La spesa dell’Ue per ricerca e sviluppo, nel 2022 – secondo Foce – ha raggiunto i 352 miliardi di euro. È quasi il doppio rispetto al 2012. I Paesi che investono più risorse, con percentuali superiori al 3% sul Pil, sono Belgio (3,44%), Svezia (3,40%), Austria (3,20%) e Germania (3,13%). L’Italia è diciottesima e non arriva all’1,5%: nel 2021 aveva investito l’1,43%, nel 2022 solo l’1,33%. 

“Inoltre – continua Cognetti – il tempo medio richiesto per l’autorizzazione di un nuovo farmaco in Italia è di circa 14 mesi, a cui si sommano ulteriori periodi necessari per l’inclusione nei Prontuari terapeutici regionali. Questo passaggio deve essere eliminato perché rappresenta un oltraggio all’art.32 della Costituzione. Il ritardo, infatti, può arrivare fino a quasi due anni, un intervallo che risulta eticamente insostenibile, anche se in linea con i tempi medi che si registrano a livello europeo. Devono essere definiti nuovi modelli, per rispondere alle esigenze dei pazienti. Una via può essere rappresentata da un miglior utilizzo delle risorse del Fondo dei farmaci innovativi, che negli ultimi anni non sono state usate in modo completo”. 

A settembre 2024, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) – riporta una nota – ha presentato due nuove Linee guida per semplificare l’organizzazione delle sperimentazioni cliniche dei farmaci e regolamentare gli studi osservazionali.  

“Nel nostro Paese i tempi di approvazione delle nuove molecole sono leggermente migliori della media europea, ma siamo impegnati a ridurli per rendere disponibili le terapie innovative più rapidamente ai cittadini – afferma Robert Nisticò, presidente di Aifa -. È doveroso essere al passo con la velocità della ricerca, perché le scoperte scientifiche di oggi saranno le valutazioni regolatorie di domani. Aifa, sul fronte interno, sta lavorando per snellire le procedure burocratiche e amministrative. Inoltre, stiamo valutando l’introduzione di nuovi modelli, che meglio rispondano alle esigenze del paziente in un’ottica di sostenibilità del sistema, prevedendo, ad esempio, un accesso precoce per terapie avanzate, in particolare laddove non vi siano alternative terapeutiche. In questo modo, i pazienti eleggibili potrebbero beneficiare delle terapie innovative senza ritardi e rallentare così la progressione di patologie oncologiche”. 

Il trattamento dei tumori pediatrici rappresenta uno dei maggiori successi della medicina moderna, grazie proprio alla ricerca e a collaborazioni scientifiche internazionali, in cui l’Italia svolge un ruolo di primo piano. “Abbiamo assistito a un marcatissimo aumento dei tassi di sopravvivenza per i bambini affetti da neoplasie, passando da circa il 30% negli anni ’60 all’80% nell’ultimo decennio, con percentuali di guarigione per alcuni tumori che arrivano addirittura a oltre il 90% – sottolinea Franco Locatelli, direttore Dipartimento di Oncoematologia Pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma -. La miglior stratificazione prognostica, le terapie mirate e l’immunoterapia sono solo alcuni degli sviluppi che hanno determinato miglioramenti significativi in termini di sopravvivenza e qualità di vita”.  

Una vera rivoluzione nella cura dei tumori negli ultimi anni “è stata l’introduzione delle cellule Car-T nella pratica clinica – aggiunge Locatelli – Il loro utilizzo ha dimostrato un’impressionante efficacia nel trattamento delle leucemie linfoblastiche acute B pediatriche, con un tasso di remissione completa compreso fra l’80 e il 90% e una sopravvivenza libera da eventi a 24 mesi del 40-50%. Questo successo ha stimolato la ricerca internazionale nello sviluppo di Car-T per diverse neoplasie sia solide sia ematologiche, con l’Italia in prima linea”. 

Negli ultimi decenni, i progressi nella ricerca, nell’accesso e nella qualità dell’assistenza e dei servizi igienico-sanitari hanno contribuito a ridurre la mortalità legata alle malattie infettive. “In Italia, in linea con i Paesi più sviluppati, tra il 1990 e il 2019 il numero di decessi per malattie infettive è diminuito significativamente (-31,6%) – spiega Massimo Andreoni, Direttore scientifico Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) -. A causa della pandemia da Covid-19, nel biennio 2020-2021, il numero di decessi per malattie infettive ha registrato un incremento importante, raggiungendo in Italia un tasso di 47,7 morti per 100.000 abitanti, oltre 4 volte il valore del 2019. Dall’altro lato, la pandemia ha velocizzato il progresso scientifico, contribuendo alla diffusione della tecnologia dei vaccini a mRna, che ha aperto un nuovo mondo nella profilassi e terapia medica”.  

I vaccini a mRNA “rompono il ‘dogma’ della vaccinazione – sottolinea Andreoni – perché non viene più introdotto l’antigene, cioè la proteina che deve immunizzare nei confronti di una malattia, ma vengono fornite alle nostre cellule le istruzioni per produrlo. Con questa tecnica, inoltre, si possono realizzare vaccini in tempi molto brevi contro agenti infettivi che compaiono per la prima volta nella storia e si stanno allestendo nuove combinazioni vaccinali, ad esempio contro l’influenza e il Covid. Le prospettive di utilizzo sono importanti, perché sono in corso studi su vaccini a mRna anche per la terapia di malattie come i tumori”. 

“Se consideriamo la valutazione annuale delle performance scientifiche dei 54 Irccs italiani, il cui ruolo istituzionale è di coniugare attività assistenziale di ottimo livello qualitativo con un’attività scientifica (ricerca traslazionale e clinica) di altrettanto livello, i dati più recenti dimostrano che un discreto numero di Irccs ha performance di elevato livello, ma purtroppo almeno la metà presenta valori di Impact Factor e H-index bassi e circa un terzo addirittura bassissimi – conclude Cognetti -. La metà degli Irccs, inoltre, risulta coordinatore di meno di 10 studi clinici e un terzo non ha svolto il ruolo né di coordinatore né di partner in sperimentazioni. Per quel che riguarda il numero di pazienti reclutati, un terzo degli Irccs riporta meno di 100 pazienti all’anno e il 20% addirittura nessun paziente. Questi dati dovrebbero indurre una seria rivalutazione del riconoscimento di Irccs agli Istituti più carenti, cui potrebbe conseguire un potenziamento di risorse disponibili per quelli più meritevoli”. 

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